Giulio Greco continua il suo viaggio. Bologna ed ora Firenze lo accompagnano nel suo peregrinare alla ricerca di una memoria catartica, inconscia, autentica. Sacchi di iuta che diventano storie, cuciti e lavorati come pallii liturgici, intrisi di quella religio del vissuto che lascia parlare il tempo, le cose. Oggetti poveri che danno forma razionale ad una vita interiore evanescente, dai contorni sfumati.
Dietro le tele di Greco si ritrova la lezione di Burri, di una materia strappata, tagliata, plasmata, un groviglio di linee che sempre si rincorrono in magiche figure. Case, angeli, onde, questi soggetti emergono in modo graffiato dalla superficie, mostrandosi soltanto in grandi silhouttes morbide, grezze. Voci profonde, porti sicuri, bussole che indicano la giusta rotta, per non perdersi, per non naufragare. Ogni quadro, ogni titolo è una canzone, una poesia bidimensionale dai colori tenui, neutri, con accenti materici forti, accecanti, un omaggio alla terra, a quel Cilento mitico sacro e profano, figlio di esploratori, di talismani e di enigmi sibillini. Non solo iuta, nel corpus di Greco, ma anche legno, pietra, carta, lettere e appunti di secoli passati che rivivono nelle sue opere grazie a collages mistici, dove si incontrano storie diverse, storie passate, storie intrise di vita, di ricordi, di emozioni. Un archivio della memoria capace di ritrovare, attraverso le sedimentazioni, l’incipit, il verbo da cui tutto è cominciato e a cui tutto tenta di ritornare.
E le pareti bianche della galleria si sono lasciate scrivere, hanno accolto, come uno scrigno, i racconti di questo artigiano dolcemente triste, gelose di tanta bellezza, gelose di una piccola stella di mare “dalla pelle bianca”, che vola leggera, scintillante di luce propria.